Fare
come Essere
– Per
essere qualcosa o qualcuno è necessario essere individuabile da
qualcosa o qualcuno. Poter essere riconosciuto come individuo,
quindi. Individuo inteso come realtà che non si può dividere, che
non può essere divisa senza perdere la sua essenza, la sua effige,
il suo carattere. Una particella indivisibile. Come tale, questo
individuo deve mostrare un minimo grado di autonomia, deve poter
definire in qualche modo se stesso e le proprie circostanze. In
breve, essere un individuo è una sporca questione di senso. Di far
senso,
anche. Persino di dover
far senso.
Faccenda assai complicata oggi, dico io. In questa sciocca
post-post-modernità che è talmente post da divenire pre.
La questione di cosa essere e di come essere è la vera questione
per l’Uomo. Qui ed ora. Non fosse altro che negli ormai scomodi
vagoni della Grande Locomotiva Occidentale l’identità individuale
è cosa che sempre meno riguarda l’individuo. E’ come se piovesse
dal cielo. Qualcuno la lascia cadere e tu prendi quella che ti tocca.
Piovono pietre, ma pazienza. Sempre meglio che essere niente. Bene,
una di queste pietre identitarie –diciamo così - è oggi il
lavoro. Nuovo (ma nemmeno tanto) Idolo, Totem dell’uomo moderno.
Pervasivo, invasivo, persuasivo. Dovunque, comunque lavoro.
Glorificato, denigrato, agognato. Lavoro. Unità di misura delle
umane cose. Per campare devi lavorare, altro non si dà. Da secoli
questo assunto viene ripetuto, fino a trasformarsi quasi in legge
della natura. In legge della coscienza, in condizione a
priori.
Che si provi ad immaginare la propria vita senza lavoro. Impossibile.
Sarebbe come immaginare uno spazio infinito, un tempo eterno, un
lavoro fisso. Tanto è vero che si parla persino di un diritto al
lavoro, quasi coincidesse con un più generale diritto alla vita. O,
meglio, alla sopravvivenza. Paradosso? Mica tanto, se per la così
detta società c’è una totale identità tra la funzione produttiva
alla quale il singolo assolve e la propria identità, il proprio
essere così e non altrimenti. Il principio di individuazione sembra
ormai essere: tu sei quello che fai. La condizione e insieme la causa
di questo processo è da ricercarsi nella struttura economica,
politica e sociale del nostro tempo e del nostro spazio. Non è
sempre stato così e non lo sarà sempre – ammesso che un sempre ci
sarà ancora. L’esistenza umana trasformata in produttività umana
è parto malriuscito di quell’inspiegabile idea secondo la quale si
ha diritto alla vita solo se si contribuisce con la propria fatica a
far girare gli ingranaggi di una macchina abnorme, eterodiretta e
votata all’accumulo di qualunque cosa esista. Ovverosia esisti se
contribuisci al funzionamento di qualcosa che è talmente grande,
talmente complesso e talmente forte da nascondersi alla comprensione
dei più. Grandi segreti di un sistema, quello capitalista del nuovo
millennio, che non sa morire perché non vuole. Ma l’agonia genera
mostri, l’abbiamo imparato. Il suicidato
dal lavoro
è l’ultimo orribile capolavoro di questa agonia che chiamano crisi
sistemica per non spaventarci troppo. Questo accade quando perdere il
lavoro significa perdere la propria identità.
Tempo
per essere, Tempo per fare – l’esistenza
non si misura con il Tempo. L’esistenza è Tempo. Costituita da
porzioni di Tempo e sottomessa alle regole del Tempo: per vivere ci
vuole Tempo. Per essere, soprattutto, ci vuole Tempo. Dicevamo che
l’individuo deve formarsi da sé, deve poter definire se stesso e,
per ciò, possedere un certo grado di autonomia. Diversamente, si ha
bisogno di qualcosa che ti dia forma, che ti informi.
Ma in tal caso salta il concetto di individuo e subentra quello di
protesi, copia, surrogato di un individualità altra. Per essere
individuo, dicevamo, c’è bisogno di tempo. Tempo per ragionare,
desiderare, riflettere, sbagliare, scegliere, rinunciare, amare,
odiare. Per autodeterminarsi, per essere se stessi. Sappiamo però
che il Tempo individuale è un tempo finito, limitato, che si
esaurisce. E sappiamo anche che l’unica cosa che l’uomo può fare
con il Tempo è quello di sceglierne l’utilizzo. Entro i limiti del
possibile, naturalmente. Ognuno può fare da sé un breve calcolo e
scoprire quanto tempo l’uomo di oggi dedichi al lavoro. E, per
sostenere la tesi che qui si prova ad accennare, basta davvero questo
semplice calcolo. Se la quasi totalità degli attimi a disposizione
di un uomo vengono occupati (spesso abusivamente) da un’occupazione
lavorativa, ecco che di tempo per il resto non c’è n’è. Il
resto è naturalmente tutto
il resto: la costruzione della propria individualità. Se lavori
pensi al lavoro, there
is no alternative.
Chiedetevi ora perché il Tempo non occupato dal lavoro si chiami
tempo
libero
e non, che so, tempo divertente. La risposta è contenuta nella
domanda. La definizione di libero prevede un termine di paragone
implicito per essere sensata. E il secondo termine è qui quello di
costretto.
Se ne inferisce che l’altra specie di Tempo, quello lavorativo, sia
un Tempo costretto, non libero. E dunque impersonale, divisibile,
non-individuale. C’è della coerenza in tutto questo: noi non
scegliamo di lavorare, noi dobbiamo lavorare. L’idea che lavorare
sia un libero atto della volontà è un’illusione. Il lavoro-dovere
si è trasformato nella coscienza in lavoro-volere sino ad apparire
come una legge immutabile del mondo, un’idea inconscia radicatasi
in noi dopo secoli e secoli di abitudine. Di nuovo: se non hai tempo
per diventare te stesso, sarai individuato per ciò che farai. Cioè
per ciò che non sarai. Perché il lavoro, comprando Tempo, compra
l’esistenza.
Lo
scopo: il grande assente – Niente
ha uno scopo in se stesso. Nemmeno il lavoro. E’ l’essere umano
in quanto essere teleologico
che per vivere ha bisogno di cercare e trovare uno scopo, una
finalità in tutto ciò lo riguarda. E, a dire il vero, l’uomo è
sempre riuscito a trovare uno scopo. Spesso distorto, ingannevole,
vano. Ma l’uomo, per sua fortuna, non è Dio. Può sbagliare.
Epperò sembra che oggi questo animale giustificatore
faccia una fatica del diavolo a trovare uno scopo al lavoro così
come oggi è concepito e organizzato. Sono andati i bei tempi in cui
lavorare voleva dire poter toccare con mano la propria sopravvivenza.
Ancora più lontano è il tempo in cui lavorare significava poter
esprimere la propria personalità, il proprio talento, la propria
vocazione. Il “lavoro come opera” è morto. Certo, oggi il lavoro
è ancora legato alla sopravvivenza, d’accordo. Ma alla
sopravvivenza di chi? Alla sopravvivenza di cosa? E’ del tutto
evidente che oggi l’uomo non lavora più per la propria esistenza,
intesa come esistenza individuale. Oggi il lavoratore sgobba per la
propria esistenza commerciale, consumistica, edonistica. Si lavora
per poter consumare, per poter soddisfare dei bisogni che sono per la
maggior parte indotti. Si lavora per restare un ingranaggio
efficiente tra altri infiniti ingranaggi senza i quali, dicono,
l’essere umano perirebbe. Si lavora per nutrire quel Grande
Individuo impersonale
che chiamiamo società. Si lavora per tutti e per nessuno. In summa:
si lavora per consumare, per poi lavorare di nuovo. Lavorare per
lavorare. Il lavoro smette così di essere un mezzo – uno strumento
- volto al raggiungimento di un qualche scopo per divenire scopo esso
stesso. Scopo a se stesso. Stando così le cose, risulta impossibile
rispondere alla fatale domanda “a che scopo?”. L’uomo moderno
ha creato le condizioni tali per cui è avvenuto nel concetto di
lavoro un avvitamento di scopi, tanto che oggi non se ne trova
nessuno. Che senso ha, ad esempio, chiedere le “ferie”, ovvero
elemosinare uno sputo del mio
tempo a qualcuno che misteriosamente è riuscito a comprarlo? Dov’è
lo scopo in tutto ciò?
Infine,
ma non alla fine - Tutto
questo per dire che l’uomo deve riformare
il concetto di lavoro per giungere ad una esistenza riformata.
Prima però deve tornare ad essere un individuum
intero e liberarsi dalla sua attuale condizione di organismo scisso -
di dividuum
– tra quello che deve essere e quello che vuole essere. Trovare un
nuovo “a che scopo?”. Ecco di cosa ha bisogno oggi l’umanità.
Non “liberare l’uomo dal lavoro” ma liberare il lavoro
dall’uomo. Da questo uomo.
Alè